
OPINIONI
(28 settembre 2007)
di Umberto Eco
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Il traduttore dovrebbe fare il massimo per rendersi invisibile. È solo nei libri mal tradotti che si avverte come nella lingua di arrivo si stabiliscano delle forzature se non delle inverosimiglianze
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Che da decenni si sia risvegliata l’attenzione per il fenomeno della traduzione è testimoniato dalla nascita di centri universitari e riviste per lo studio della traduzione. I motivi sono molti, ma forse il primo è che, se pure continuiamo a prevedere che un giorno tutti parleranno solo inglese, di fatto mai come oggi lingue diverse sono obbligate a confrontarsi, e basti pensare al numero di traduttori simultanei necessari per le riunioni del parlamento europeo – o al fatto che molte città americane sono ormai di fatto bilingui, con segnalazioni di vario tipo in spagnolo.
Una delle battaglie dei traduttori è stata da anni quella per avere il nome sul frontespizio (non come co-autore ma almeno come mediatore fondamentale), e non relegato in carattere minore in quella contro-pagina d’inizio che oggi chiamiamo impropriamente colophon. Direi che è battaglia vinta, almeno da parte dei maggiori editori, ma ancora l’altro giorno qualcuno si lamentava che l’uso si sia generalizzato per le traduzioni letterarie ma non per le traduzioni saggistiche, come se tradurre un saggio filosofico non fosse spesso più impegnativo che tradurre un romanzo d’amore. Mi pare che anche per la saggistica il rispetto del traduttore si sia ormai affermato, ma se qualcuno si lamenta vuole dire che esistono ancora delle frange irrispettose.
A molti la cosa potrà parere inverosimile, ma vi assicuro che la stragrande maggioranza dei lettori, anche quando sa che sta leggendo il libro di uno straniero, non si rende conto che è tradotto. È un fenomeno psicologico abbastanza complesso, ma me ne accorgo quando, trovandomi in un paese straniero in cui un mio libro è stato tradotto, sono talora avvicinato da persone che mi parlano nella loro lingua rimanendo poi stupiti che io non la capisca; rimangono stupiti perché mi hanno letto in quella lingua e dunque pensavano che fossi io a ‘parlare’ in quel modo.
Dura e paradossale fatica è dunque quella del traduttore, il quale dovrebbe fare il massimo per rendersi invisibile, come se si instaurasse un dialogo diretto tra lettore e autore originale, eppure vorrebbe (giustamente) che questa invisibilità fosse premiata con una certa visibilità. Eppure il successo del traduttore è proprio il raggiungimento dell’invisibilità: è solo nei libri mal tradotti che si avverte come nella lingua di arrivo si stabiliscano delle forzature, dei giri faticosi di parole, se non addirittura delle inverosimiglianze. Il lettore ingenuo trova il libro semplicemente duro da leggere, il lettore avvertito invece subodora subito un errore di traduzione, e addirittura dall’errore è capace di indovinare che cosa diceva il testo originale.
Recentemente su un saggio che non dico (tradotto dal francese), ho letto che un tizio portava un cappello ‘alto di forma’. In italiano questa espressione, oltre che insolita, non dice niente: che cos’è un cappello alto di forma, un cono da mago Merlino, un turbante da eunuco del Serraglio, un cappellaccio alla Capitan Fracassa con pennacchio incorporato? In realtà in francese un cappello ‘haut-de-forme’ è un cappello a cilindro. Siccome che un cappello sia alto di forma in italiano non vuole dire niente, il traduttore avrebbe dovuto nutrire un sospetto, e gli sarebbe bastato aprire un dizionario (per esempio nel mio Boch Zanichelli ‘haut-de-forme’ esiste come voce a sé). Perché non l’ha fatto (e avverto subito che nello stesso libro ho trovato altre amenità del genere)? Perché andava di corsa, o perché era il solito professore disonesto che aveva fatto lavorare gratis lo studente più stupido (stupido perché traduce male e stupido perché si fa sfruttare). Ed ecco un altro argomento centrale in ogni convegno di traduttori: il compenso.